Definito dalla critica: “Geniale”, “Affascinante”, “Sorprendente”, “Da impazzire”; tutti aggettivi assolutamente adeguati al libro in questione. Io aggiungerei: “Difficile da recensire”; infatti se riassumessi la storia, senza svelare la sua peculiarità principale, la recensione risulterebbe incompleta e distorta.
Dall’Inizio, si pongono le basi per il classico racconto giallo grazie alla presenza di alcuni elementi come la pioggia, la villa in rovina, e il comportamento ambiguo dei personaggi. Durante la narrazione, però, vengono introdotti elementi noir, thriller e anche un pizzico di horror che, creano una combinazione perfetta, non solo per la trama che si arricchisce, ma anche, perché il lettore ne risulta più coinvolto.
E’ un testo originale, non tanto per la storia in sé ma, soprattutto, per come è strutturato e ciò, lo rende unico nel suo genere (almeno così credo) !! Per questo motivo, consiglio di scegliere un momento tranquillo per la lettura, in modo da poter concentrarsi al meglio e comprendere tutte le parti del racconto. Il rischio, è infatti, quello di abbandonare il libro poiché l’intreccio risulta troppo complesso e contorto; in effetti, è un vero e proprio rompicapo! Ho riletto alcuni capitoli più volte poiché rischiavo di perdere il filo della narrazione.
Se cercate tra le diverse recensioni, il giudizio è molto disomogeneo ed è evidente che, questo romanzo o piace molto o non piace per niente: non ci sono vie di mezzo! Il mio giudizio a riguardo, è molto positivo, non vi resta che provare a leggerlo e farvi una vostra opinione!
Il romanzo è ambientato a Parigi durante (e dopo) la seconda guerra mondiale e il protagonista è un ragazzo ebreo Max Berenzon, figlio di un gallerista importante, appassionato di arte ma, studente di medicina. Il racconto è diviso in due parti: il periodo fino all’invasione francese da parte dei tedeschi, in cui Max vive la “Parigi degli artisti” rappresentato dalla mondanità delle aste o dalla frivolezza dei vernissage eleganti e il dopoguerra, contrassegnato dalla penuria di cibo in cui ricerca le opere trafugate alla sua famiglia durante il conflitto.
Gli eventi sono legati strettamente alle relazioni e alle emozioni che vive il protagonista; è centrale nella storia il rapporto complicato con il padre con cui, Max non trova mai una vera e propria intesa; a questo, si sovrappone l’amore per Rose, personaggio chiave per tutto il corso della narrazione sia, per quanto riguarda le vicende artistiche che, sentimentali. Dal racconto traspaiono i vari accadimenti avvenuti a Parigi in quel periodo e sono rimasta intrappolata tra i fili della Storia. L’autrice, ha compiuto un anno di ricerche prima di scrivere il romanzo ed è riuscita, a parer mio, a descrivere al meglio la situazione in cui si viveva all’epoca senza appesantire la narrazione con troppi dettagli storici.
Il capitolo finale è dedicato “al dietro le quinte” del libro per spiegare al lettore a chi sono ispirati i personaggi e il triste capitolo delle opere perdute a causa del saccheggio nazista. Avendo letto “Monuments Men: eroi alleati, ladri nazisti e la più grande caccia al tesoro della Storia ” di Robert M. Edsel , conoscevo la storia di Rose Valland e ho apprezzato che l’autrice abbia preso spunto da una figura reale per creare un personaggio che però, si integri bene con la trama.
La
lettura è fluida; le pagine scorrono velocemente, anche grazie ai capitoli non
troppo lunghi e al ritmo sostenuto della narrazione. Ho apprezzato l’unione tra
i vari elementi storici e narrativi che risulta armonico ed equilibrato.
” Chiunque tu sia, hai ragione, c’è sempre chi si è riempito la pancia con la mancanza di vergogna, ma noi, cui non resta più niente, se non quest’ultima e immeritata dignità, dimostriamoci almeno capaci di lottare per quanto ci appartiene di diritto”
Cosa succederebbe se all’improvviso si perdesse la vista? Cosa succederebbe se tutta una popolazione diventasse cieca e fosse lasciata in balia di se stessa? Cosa succederebbe se si venisse rinchiusi in una struttura, senza aiuto dall’esterno? Questo è in breve ciò che è raccontato in questo romanzo.
E’ un racconto crudo, basato su un solo e semplice concetto: la privazione della vista che diventa metafora della cecità dell’anima, dell’annebbiamento della ragione, dell’involuzione sociale. L’autore vuole mettere in risalto come, in ogni persona, è presente un lato oscuro, una parte “crudele” che irrompe, quando prevale l’istinto primitivo di sopravvivenza.
Nel libro, ritorna ripetutamente, la contrapposizione tra sporcizia e pulizia: lo sporco dei corridoi, il fetore all’interno degli edifici, la putrefazione dei corpi e dei cibi si oppone alla purezza dell’acqua che toglie la sete ma, soprattutto, lava via il sudiciume. Ovviamente, è tutto allegorico; la cecità è fisica ma, soprattutto connessa all’assenza di umanità, di collaborazione e di compassione da parte dei ciechi che, indotti alla disperazione, si rendono partecipi di episodi spietati, violenze fisiche fino ad arrivare all’omicidio. Al contrario, l’acqua è il simbolo della ripulitura del corpo e dell’anima, non a caso, sono ben descritti i momenti di pulizia personale che simboleggiano la purificazione dello spirito dalle maltrattamenti subiti e compiuti e alla fine…ops mi devo bloccare se no svelo il finale!!!
In un’intervista, Saramago disse: “Volevo raccontare le difficoltà che abbiamo a comportarci come esseri razionali, collocando un gruppo umano in una situazione di crisi assoluta. La privazione della vista è, in un certo senso, la privazione della ragione. Quello che racconto in questo libro, sta succedendo in qualunque parte del mondo in questo momento”. Infatti è così: l’epidemia si presenta in un luogo qualsiasi, in un tempo non specificato e a persone senza nome; perché il problema della “cecità spirituale” è un problema della società in generale, una corruzione dell’anima che ha colpito e colpisce, tutte le razze, tutte le età, a tutte le latitudini. Secondo Saramago, chiunque può essere il personaggio di questa storia; verso la fine del libro questo pensiero viene ben esplicitato: “ i ciechi non hanno bisogno del nome, io sono questa mia voce il resto non è importante” .
C’è una figura che spicca e può essere considerata diversa dalle altre: la moglie del medico, l’eroina di questa storia. Infatti, anche per i racconti più crudi esiste una speranza e questa, è rappresentata da questa donna: forte, pragmatica e coraggiosa che non esita ad accompagnare il marito nel momento di difficoltà e a salvare il “branco di ciechi” dall’inferno del manicomio e dalla violenza causata dalla fame. Potrei definirla il personaggio della purificazione visto che, è l’unica che è direttamente a contatto con l’acqua: lava le compagne, si occupa della pulitura dei vestiti, e infine dà da bere ai compagni assetati; ogni suo gesto o decisione, è una piccola speranza in cui gli altri si rifugiano. Lei, è l’unica persona che può vedere e diventa l’unica persona che ha il desiderio di diventare cieca, per non guardare le terribili crudeltà che, ogni giorno, si presentano sotto i suoi occhi. Ad un certo punto della narrazione, la donna dice: “ ho la responsabilità di avere gli occhi quando gli altri li hanno perduti…aiuterò per quanto sarà nelle mie possibilità”: ecco tutto il peso che porta sulle sue spalle!
Il testo, sebbene in alcune parti sia crudo e brutale, ti coinvolge totalmente; avrete capito che è una lettura impegnativa sotto molti aspetti ma, porta a riflettere sulla condizione in cui viviamo. Ovviamente è una situazione paradossale, portata all’estremo ma proprio per questo, porta a domandarsi se potrebbe succedere anche nella vita reale. In fondo, nella nostra società si sta diffondendo l’indifferenza, la paura del diverso e per tutto ciò che non si conosce; nessuna tra queste è una “malattia fisica”, come la cecità ma, tutte possono essere considerate “malattie dell’anima” e come vuole farci capire Saramago, ognuna di queste, può essere molto pericolosa per la nostra società e per il nostro futuro.
Un piccolo accenno va fatto anche alla struttura narrativa adottata da Saramago; chi conosce i suoi romanzi ne conosce anche lo stile che, a mio parere si adatta molto bene a questa storia. All’inizio, comprendere il testo è molto difficoltoso per via dell’assenza di punteggiatura e dell’assenza di separazione tra discorsi diretti e indiretti ma, incredibilmente, quando ci si abitua a questa impostazione, tutto diventa più chiaro e definito. Consiglio all’inizio una lettura a voce alta!
Al termine della lettura, è difficile “lasciare andare i personaggi” e nei giorni successivi si pensa a che fine faranno, se manterranno il legame forte che si è creato e riusciranno a vivere normalmente nonostante, un trauma così grande. Insomma, riusciranno a ricostruire un mondo diverso?
Poliziesco ambientato ad Orphea, cittadina immaginaria negli Hamptons dove si alternano fatti avvenuti tra il 1994 e il 2004 durante il periodo estivo in cui si organizza il festival locale. L’intreccio è ben congeniato, rispetto ai soliti thriller, Joel Dicker, ci regala degli “espedienti” che mi sono piaciuti molto. Infatti racconta, attraverso vari personaggi più o meno importanti, di situazioni apparentemente sganciate una dall’altra, ma sul finale, ognuno di questi elementi, si inserirà come un perfetto tassello nel puzzle, regalando al lettore la soluzione del caso. Un altro “trucco” che rende il romanzo più avvincente, è la modalità della narrazione: ogni capitolo è raccontato in prima persona da uno dei personaggi, per cui il lettore entra nella storia, attraverso la descrizione diretta delle azioni e delle emozioni della persona che sta raccontando gli eventi. Inoltre, Joel Dicker si è divertito tramite molteplici colpi di scena, sparsi qua e là, ad ingannarci, suggerendoci soluzioni alternative assolutamente credibili, per cui fino alle ultime pagine non si sa chi sia il reale colpevole: tutti potrebbero esserlo perché ognuno nasconde un segreto, come in ogni buon giallo che si rispetti.
Si può dire che, in questo romanzo non ci sono dei veri e propri protagonisti:
ci sono personaggi maggiori e minori ma, quello che descrive l’autore è il
paese di provincia, con le sue regole e le sue convenzioni. Essendo per l’appunto
un piccolo paese, tutti partecipano agli eventi e l’autore descrive molto bene
questa coralità ma anche, ciascuno degli abitanti coinvolti: ognuno ha una
piccola o grande parte nella trama.
E’ una lettura che può sembrare impegnativa, visto la mole del volume, invece risulta molto scorrevole sia per la trama avvincente che per la modalità di scrittura adoperata. L’alternanza delle voci e dei momenti temporali che, caratterizza i capitoli, non è un ostacolo alla fluidità della narrazione bensì, un arricchimento poiché, regala un ulteriore ritmo alla storia.
Consiglio anche gli altri romanzi di Joel Dicker, di cui scriverò una recensione magari più avanti: “La verità sul caso Harry Quebert” (2012) e “Il libro dei Baltimore” (2015).
Romanzo ambientato ai
giorni nostri in Francia; il romanzo è incentrato sulla protagonista, Valerie
che ha ereditato una libreria dalla zia “scomparsa” in circostanze misteriose.
La problematica maggiore del libro è proprio la trama perché, rimane bloccata in
questo punto e non si sviluppa oltre; non viene inserito alcun piccolo episodio
o personaggio che possa diventare un’occasione per rivitalizzare la storia.
L’autore, descrive le iniziali difficoltà della protagonista nell’approcciarsi
al nuovo lavoro che, però, con l’andare dei mesi, si trasformano in una vera e
propria passione per la lettura; vengono citati nei vari capitoli, brani di
testi noti ma, anche se la scrittura è fluida e il lessico non è complesso, il
racconto risulta ripetitivo e piatto.
Manca una descrizione sia
fisica sia psicologica di Valerie, anche indirettamente, non traspare mai una
caratterizzazione del suo personaggio; non ci sono figure secondarie ma,
semplicemente comparse che, vengono presentate molto velocemente senza
soffermarsi sulla figura in sé ma, solo per le relazioni con la protagonista.
Il finale è abbastanza originale; per questo avrebbe potuto essere un’opportunità per introdurre un colpo di scena, risvegliando il lettore dal torpore, invece, passa quasi inosservato a causa della mancanza di un intreccio narrativo.
Insomma, come avrete
capito, il mio giudizio è negativo: il racconto è talmente anonimo che si
dimentica facilmente. Mi spiace molto scrivere questa recensione così sfavorevole
anche perchè la casa editrice che lo ha pubblicato è molto valida, ma in questo
caso specifico anche la copertina risulta scialba come il romanzo.
Oggi voglio parlarvi della collana “I Bassotti”, di Polillo Editore, che propone ai lettori alcuni tra i migliori romanzi gialli scritti da diversi autori, spesso sconosciuti o dimenticati, a partire dai primi del Novecento. La casa editrice la definisce “piccola biblioteca del giallo da salvare”: la collana comprende 200 volumi (per ora!) che sono riconoscibili da una semplice, ma simpatica, copertina arancione.
Ho scoperto l’esistenza di questi romanzi, grazie ad un regalo del mio fidanzato che, recandosi al Salone del Libro di Torino, si è avvicinato allo stand di Polillo Editore, colpito proprio dal colore delle copertine dei libri in esposizione. Dopo aver letto, “L’enigma della stanza impenetrabile”, di Derek Smith, ho cominciato a cercare “altri Bassotti” nelle varie librerie e ho scoperto che non è poi così difficile trovarli! Qua e là, sui vari scaffali, “un Bassotto” si trova sempre, sembra quasi volersi mimetizzare tra gli altri romanzi dalle copertine grigie o nere, ma l’occhio è subito attirato dal colore vivo che lo caratterizza. E così, pian pianino, ne ho già letti circa una decina. La trama che caratterizza questi polizieschi è intricata e appassionante, ricorda spesso i romanzi della più celebre Agatha Christie; le ambientazioni variano dalla campagna inglese alle mete più esotiche, ma in ogni caso, il lettore viene avvolto da un’atmosfera misteriosa come nello stile di un perfetto giallo classico .
Adoro leggere questi romanzi, il pomeriggio tardi o la sera, sul divano mentre fuori fa freddo; mi piacerebbe scrivere anche di un bel camino acceso, ma quello lo devo immaginare perché purtroppo mi manca! Forse un po’ troppo idilliaco eh? In ogni caso, il formato “tascabile” consente di leggerli anche sul tram o in pausa pranzo e questo è un’ottima idea visto, le tempistiche di oggi per recarsi al lavoro o a scuola. Periodicamente, la casa editrice pubblica un nuovo volume della collana; ho scoperto che ci sono dei veri e propri fan “dei Bassotti” che comprano subito l’ultimo volume pubblicato e perciò bisogna prenotarlo e aspettare qualche giorno per leggerlo. I primi volumi della collana, invece, sono più difficili da recuperare; io li ho comprati direttamente allo stand della Polillo al Salone del Libro di Torino, ma penso che scrivendo alla casa editrice si possano ordinare.
Un plauso a questa piccola casa editrice che sta riscoprendo romanzi quasi perduti facendoli conoscere ai lettori.
Primo volume della saga familiare degli Aubrey, ambientato a fine Ottocento, in Gran Bretagna tra la Scozia e Lovegrove, sobborgo di Londra. La trama è incentrata sulle vicende di questa famiglia non convenzionale, composta dalla madre Clare, pianista di talento, dai figli: Cordelia, Richard Quinn, le gemelle Rose e Mary; della famiglia fa parte anche il padre, uomo bizzarro e giornalista scapestrato, sommerso dai debiti e poco presente ma, nonostante tutto, ammirato da tutta la famiglia per le sue idee e per i suoi progetti. Clare, sola a gestire le questioni familiari, si trova in perenne stato di ansia per le condizioni di indigenza della famiglia e si consola, pensando al talento dei figli per la musica. La musica infatti, è uno dei grandi temi su cui si struttura il libro, è un rifugio nel quale i bambini scappano lontano dagli ostacoli e dalle preoccupazioni quotidiane.
La narrazione è in prima persona, poiché è Rose, una delle due gemelle, che ricorda i tempi dell’infanzia; lei e i suoi fratelli sono molto responsabili e risultano più grandi della loro età reale come si evince da un’affermazione di Richard Quinn “Non importa. Che sia un papà o che sia l’altro finisce comunque che nessuno di noi ha nulla, e questo nulla lo possiamo dividere in quante parti vogliamo, il nulla è divisibile finché si vuole, ce ne sarà sempre una quota per tutti”. Frase molto saggia per un ragazzino. I personaggi sono descritti dettagliatamente, mentre, la figura del padre non è rivelata in maniera diretta, ma le caratteristiche del personaggio traspaiono soprattutto dai discorsi dei bambini e da come si comporta in casa; benché egli sia presente molto poco, risulta una figura centrale su cui ruotano tutti gli avvenimenti della famiglia.
Il racconto è suddiviso in lunghi capitoli, il lessico è ricercato e la trama è ricca di dialoghi, anche se, sono presenti diverse descrizioni riferite agli ambienti in cui si svolgono gli eventi.
Mi dispiace, ma non consiglio questa lettura. Ho comprato questo libro incoraggiata dalle diverse recensioni positive e perché mi piacciono le saghe familiari; ne ho lette diverse, e nonostante il lessico elaborato, come ad esempio i Buddenbrook di Thomas Mann, ho sempre trovato affascinante seguire il susseguirsi degli avvenimenti di componenti di una discendenza. Per questo romanzo invece, non posso dire la stessa cosa: l’ho trovato lento e noioso, la trama manca di ritmo, a parte qualche episodio nel corso della narrazione che, avrebbe potuto essere da spunto per inserire qualche nuova tematica oltre alla musica e a contrasti familiari. Personalmente, penso che Rebecca West abbia appesantito la trama, dilungandosi nelle descrizioni di ambienti e nell’esporre alcuni episodi, poco attinenti alla storia. Rose, molto critica verso i familiari, mi è risultata antipatica, mentre il personaggio di Cordelia, tanto denigrato nel corso del racconto, mi ha suscitato un po’ di compassione. La conclusione, o meglio l’ultima parte del romanzo, l’ho trovata più coinvolgente, anche per l’effetto sorpresa che ha voluto regalarci (finalmente!) l’autrice ma, devo ammettere che non mi ha incuriosita così tanto, da voler continuare la lettura dei romanzi successivi.
Una nota positiva alla copertina!!! Apprezzo molto le copertine dei libri, non solo per le immagini e i colori ma, anche per l’attinenza che hanno rispetto alla trama del romanzo; devo ammettere che l’immagine scelta dalla casa editrice, per questa edizione, (Fazi editore 2018) mi piace molto: semplice ma di effetto, visto che rappresenta alcuni tra i personaggi principali della storia e il pianoforte, che è uno dei simboli di questo romanzo.
La cosa strana è che proprio a Torino, molte persone, anche di buona cultura, non conoscono affatto Gualino. Tutt’al più, visto che ci sono Villa Gualino e Palazzo Gualino, pensano che sia un architetto.”
Con questa frase, nell’ultima pagina del libro, l’autore condivide con i lettori lo sconcerto e l’amarezza per l’assoluto oblio in cui è stato confinato Riccardo Gualino: “Il grande Gualino”. L’autore, lo definisce giustamente un “Gasby Italiano” ma, anche se può sembrare un’affermazione azzardata, a me ricorda, “Forrest Gump”. E’ vero, che le origini e il modo di vivere, risultano completamente diversi, ma entrambi, hanno accidentalmente vissuto eventi fondamentali del Novecento e ne hanno conosciuto le figure chiave. E’ quasi istintivo pensare che, se non fosse esistito, Gualino sarebbe stato un protagonista perfetto per un romanzo.
Il racconto è diviso in cinque capitoli, definiti “movimenti”, in cui si snodano le avventure del protagonista. Con lo scorrere delle pagine, si percorre tutta la Storia del Novecento: dalla Prima Guerra Mondiale, all’ascesa del Fascismo, dal Secondo Conflitto, fino al Dopoguerra e al “Boom” economico; inoltre, di quest’epoca, si raccontano gli usi e costumi, i diversi movimenti artistici e culturali ma soprattutto figure fondamentali e molto diverse tra loro, come: Giovanni Agnelli, Gabriele D’annunzio, Winston Churchill, Piero Gobetti, Felice Casorati, Coco Chanel, Solomon Guggenheim, Gino Levi Montalcini, Arnoldo Mondadori, Luchino Visconti, Orson Welles e tanti altri.
Nella prima parte, emerge l’incredibile intelligenza e lungimiranza di Gualino: “Abilissimo nel districarsi nel grande gioco, agiva sempre come un equilibrista sul filo del rasoio ma con un grande intuito e la genialità di un artista”. Gli si perdona qualche operazione finanziaria non proprio limpida e qualche scappatella extraconiugale, poiché si rimane conquistati dal suo ottimismo e dalla capacità di trovare una soluzione in situazioni critiche. AL contrario, nella seconda parte, soprattutto per le vicende storiche connesse, viene evidenziato il suo lato umano e il rapporto stretto con la moglie Cesarina, dalla quale non si separerà mai: “Le case sono solo involucri. L’Importante è il contenuto: cioè siamo noi e la nostra vita”.
Giorgio Caponetti ha preferito che alcuni episodi fossero
raccontati direttamente dai personaggi mentre altri, fossero presentati in terza
persona; in ogni caso, la narrazione è sempre fluida e la scrittura scorrevole.
Si vivono le varie vicende in prima persona, come se si fosse delle piccole
mosche sulla spalla del protagonista. Inoltre, sono stati inseriti stralci di
lettere e documenti che l’autore ha potuto consultare, grazie alla disponibilità
della famiglia Gualino e ciò aiuta il lettore a capire meglio i pensieri e la
personalità di Riccardo e Cesarina.
Mi è piaciuta molto l’idea di un capitolo “post scriptum”
in cui, si racconta, la situazione nel presente, cioè, cosa è rimasto di quel
periodo d’oro e cosa è andato distrutto; infatti ì, durante la lettura, si ha
il desiderio di visitare i luoghi e gli ambienti descritti così
dettagliatamente nel romanzo. Riccardo e Cesarina mi hanno proprio conquistata, e
consiglio la lettura anche a chi non è interessato alla storia, poiché la
vicenda raccontata lo rende un bellissimo romanzo (anche se non lo è!).
E’
un romanzo ambientato in Germania, tra il 1940 e il 1945; l’autrice si è
ispirata a fatti realmente accaduti e vissuti dalla signora Wolk, ragazza
tedesca reclutata, per assaggiare il cibo destinato a Hitler.
Rose, moglie di un soldato al fronte, si trasferisce in campagna dai suoceri e una mattina viene prelevata da casa e portata in caserma da alcuni agenti delle SS; si ritrova in una grande stanza adibita a sala da pranzo, con altre nove ragazze, silenziose e spaventate, e le viene imposto di assaggiare varie pietanze per accertarsi che non siano avvelenate. Questo incarico, viene considerato prestigioso dai gendarmi nazisti, poiché la donna ariana ha modo si aiutare la nazione ma, le ragazze protagoniste del romanzo, si considerano piuttosto cavie da laboratorio e combattono costantemente tra il desiderio di mangiare, vista la penuria di cibo, e la paura di morire per un’intossicazione. L’autrice è stata molto brava a descrivere i momenti successivi ai pasti caratterizzati dall’ ansia, dal timore per la comparsa di malessere e altri sintomi.
Le cene si succedono ai pranzi e, seguendo la solita routine, il lavoro di assaggiatrice diventa quasi un incarico ordinario; Rose afferma: “la capacità di adattamento è la maggiore risorsa degli esseri umani, ma più mi adattavo e meno mi sentivo umana”.
Le dieci ragazze cominciano a conoscersi e come a scuola o in un normale luogo di lavoro, si creano amicizie, controversie e gelosie; Rose dalla diffidenza iniziale, comincia a solidarizzare e collaborare con alcune colleghe. Ad un certo punto della storia, compare un personaggio che modifica il corso della storia e porta la protagonista ad forte conflitto interiore. La terza parte è la ciliegina sulla torta, non solo, perché descrive i fatti accaduti negli anni successivi, con un finale sorprendente ma anche, per il registro che, diventa più intimo. Rosella Postorino, in diversi episodi, più o meno felici, caratterizza ogni singolo personaggio dipingendo uno scorcio della vita quotidiana durante il periodo bellico.
Ho apprezzato molto la scrittura scorrevole e chiara, scarna di descrizioni minuziose, ma capace, attraverso dialoghi efficaci, di portare il lettore all’interno della scena, come se ci si sedesse al tavolo insieme a Rose e alle sue colleghe. E’ stato talmente coinvolgente che ci si domanda che fine abbiano fatto i vari personaggi nel corso degli anni, ma questo è forse dovuto alla mia curiosità di lettrice!!! Sebbene, l’autrice non sia riuscita, ad intervistare la sig.ra Wolk, deceduta poche settimane dopo la sua richiesta per un’intervista, riesce a ricreare ambienti e situazioni in modo verosimile. Si percepisce, una preparazione attenta e uno studio approfondito del periodo storico scelto per la narrazione.